Periodicamente, in materia d’investimenti, esplodono grandi scandali connessi a strumenti finanziari venduti ai risparmiatori come appetibili, convenienti e sicuri, che si rivelano invece spazzatura. Negli ultimi anni sono stati numerosi i casi di italiani che hanno visto sfumare i propri risparmi, perché erroneamente consigliati dalle proprie banche e dai propri consulenti al momento di decidere dove investire il loro denaro. Dai bond argentini ai casi Cirio e Parmalat, dal crack Lehman Brothers alle obbligazioni subordinate di Banca Etruria, fino alle azioni della Banca Popolare di Vicenza, l’elenco è lungo e vario. L’elemento comune di tutte le vicende è, però, l’esistenza di uno strumento finanziario particolarmente rischioso, o con prezzo stabilito arbitrariamente, che si è improvvisamente svuotato di valore, mandando in fumo risparmi d’intere famiglie ignare di ciò in cui avevano realmente investito i propri risparmi.
Al di là delle diverse vicende economiche che si trovano alla base del deprezzamento dei singoli strumenti, le perdite subìte dai risparmiatori sono state (quasi) sempre direttamente imputabili ad una condotta scorretta della banca nella sua veste di intermediario finanziario, che non aveva correttamente informato l’acquirente della reale natura dei titoli e dei rischi ad essa connessi.
Laddove si rinvenga la violazione di obblighi informativi – unitamente ad altre condotte previste dal D.Lgs. n. 58/1998 (Testo unico in materia di intermediazione finanziaria) – è possibile agire in giudizio per chiedere la risoluzione per inadempimento, da parte dell’intermediario finanziario, del contratto quadro di investimento e dei singoli ordini, così da poter ottenere il risarcimento delle somme perdute. Somme che, se correttamente informato, il risparmiatore avrebbe destinato ad altre tipologie d’investimento.
Ciò detto in maniera estremamente semplificata – nella consapevolezza che ogni caso presenta singolarità fattuali e giuridiche – è anche grazie alla tutela offerta dai Tribunali che molti risparmiatori sono riusciti a rivedere in tutto o in parte i propri risparmi.
Il caso dei diamanti da investimento
Nelle ultime settimane in materia d’investimenti si è aperto un nuovo fronte per i risparmiatori che hanno visto sfumare i loro risparmi, iniziato per la verità con una puntata della trasmissione Report dell’ottobre del 2016. Si tratta della questione dei diamanti da investimento.
Nel mese di settembre, infatti, l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (c.d. Antitrust) ha comminato multe per complessivi 15,35 milioni di € a due società che commerciano diamanti (la Intermarket Diamond Business S.p.a. e la Diamond Private Investment S.p.a.) e a quattro banche che fungevano da intermediarie (Unicredit, Banco BPM, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi di Siena), per aver attuato pratiche commerciali scorrette e ingannevoli per i consumatori.
Come avviene anche per l’oro e per le materie prime in generale, i diamanti sono visti come bene rifugio, il cui prezzo – corrispondendo ad un valore intrinseco reale – tende a rimanere pressoché inalterato nel tempo, anche in periodi di crisi economica e di instabilità dei prezzi. Si tratta, quindi, di un investimento sicuro, che non genera grandi rendimenti ma serve a proteggere il capitale investito.
La decisione del Garante
Ebbene, con due decisioni assunte lo scorso 20 settembre, l’Antitrust ha accertato sistematiche violazioni relative alla compravendita di diamanti a fine di investimento; violazioni commesse dalle due società I.D.B. S.p.a. e D.P.I. S.p.a. e dalle banche con le quali esse operavano per collocare le pietre ai risparmiatori. Si tratta, in particolare, dell’accertamento di modalità ingannevoli ed omissive con le quali i diamanti venivano offerti ai risparmiatori, ossia di violazioni in materia di pratiche commerciali nell’ambito della compravendita di strumenti finanziari. Nel caso di specie, il Garante ha stabilito che le società “hanno offerto l’acquisto di diamanti da investimento diffondendo informazioni omissive ed ingannevoli in merito alle caratteristiche dell’investimento proposto, al prezzo dei diamanti e alla convenienza economica di tale acquisto.
In particolare, nel materiale promozionale e illustrativo […] e in quello utilizzato dal personale delle banche alle quali si rivolgeva il consumatore interessato all’acquisto, si rappresentavano in modo ingannevole ed omissivo: a) il prezzo di vendita dei diamanti – autonomamente fissato dal professionista e comprendente costi e margini di importo complessivamente superiore al valore della pietra – presentato come quotazione di mercato e pubblicato a pagamento su giornali economici; b) l’aspettativa di apprezzamento del valore futuro dei diamanti, attraverso grafici costruiti sull’andamento dei propri prezzi di vendita presentati come “quotazioni”, messe a confronto con indici ufficiali e quotazioni di titoli stabilite in mercati regolamentati; c) la facile liquidabilità e rivendibilità del diamante, quando invece l’unico canale di rivendita attraverso il quale avrebbero potuto essere realizzati i guadagni prospettati è rappresentato dagli stessi professionisti; d) la qualifica di leader di mercato, impiegata senza ulteriori precisazioni, al fine di conferire un maggiore affidamento alla propria offerta.”.
A ciò si aggiunga l’accertamento di violazioni in materia di diritto di recesso del consumatore e di foro competente, nella modulistica che le due società avevano predisposto per la compravendita delle pietre.
Le motivazioni della decisione
Il Garante, nel comminare le multe, ha riscontrato violazioni delle norme a tutela dei consumatori, contenute nel D.Lgs. n. 205/2006 (c.d. Codice del consumo). Rimangono sullo sfondo, dunque, i profili di responsabilità per violazione di norme in materia d’intermediazione finanziaria, che hanno sempre accompagnato la compravendita di strumenti e titoli.
Anche perché il presupposto è che, non esistendo in teoria un limite al godimento dei diamanti acquistati a fini d’investimento, secondo la Consob non dovrebbe essere applicabile la disciplina del Testo unico in materia d’intermediazione finanziaria, anche se la vendita avviene attraverso canali bancari, “a meno che tale vendita non si configuri esplicitamente come offerta di un prodotto finanziario, grazie alla esplicita previsione, anche tramite contratti collegati, di elementi come, ad esempio, promesse di rendimento, obblighi di riacquisto, realizzazione di profitti ovvero vincoli al godimento del bene.”.
Dall’accertamento dell’Autorità Garante, è emerso che le società e le banche presentavano l’investimento in diamanti come assolutamente sicuro, sia con riferimento alla conservazione del valore nel tempo (ed al trend positivo del prezzo dei diamanti), sia in relazione alla facilità di rivendita, anche grazie ad una rete commerciale messa a disposizione dalle due società incriminate. Il prezzo più alto praticato da I.D.B. e D.P.I. era giustificato con servizi aggiuntivi erogati al risparmiatore; tra questi, il principale era senza dubbio l’assistenza alla rivendita dei diamanti, al prezzo pubblicato sui maggiori quotidiani ed in un lasso di tempo molto breve.
Messi di fronte all’acquisto di un bene rifugio facilmente rivendibile, molti correntisti sono stati convinti ad investire i loro soldi. Il punto è che l’Antitrust ha stabilito che essi sono stati ingannati.
Infatti, l’istruttoria del Garante ha accertato che il prezzo – effettivamente pubblicato dalle società venditrici su Il Sole 24 Ore – non aveva in realtà alcun riferimento al valore di mercato delle pietre (individuato sulla base di indici di riferimento internazionali), ma era fissato dall’intermediario in modo del tutto arbitrario. L’Autorità ha calcolato che solo una parte del prezzo fosse costituito dall’effettivo prezzo di mercato della pietra. La parte rimanente era costituita da commissioni, i.v.a. e un margine di profitto che I.D.B. e D.P.I. si erano ritagliate. Questa modalità di fissazione del prezzo – di cui pare fossero all’oscuro anche le banche intermediarie – ha prodotto il risultato di un esborso ingiustificato per il risparmiatore, ben superiore al valore di mercato.
Anche l’andamento crescente dei prezzi delle pietre, che veniva rappresentato come prospettiva redditizia agli investitori, era in realtà scollegato dagli indici internazionali, presentandosi come andamento annuale del prezzo di vendita delle imprese, progressivamente aumentato dai venditori.
Circa la facilità di rivendita delle pietre (dunque di disinvestimento), è emerso che le società non riacquistavano direttamente i diamanti ma si limitavano semplicemente a cercare un nuovo acquirente all’interno del loro circuito di riferimento, avvalendosi di società d’intermediazione da loro controllate. Questo meccanismo non dava in realtà alcuna garanzia sui tempi e sul prezzo di rivendita; anzi, dati del Garante alla mano, per gli investimenti a breve termine la volontà di rivendere i diamanti si traduceva sempre in una perdita per il consumatore. Anche perché le società applicavano una commissione in caso di rivendita, variabile a seconda degli anni in cui si era mantenuto l’investimento.
In tutto ciò, le quattro banche coinvolte sarebbero responsabili per aver consigliato – anche con insistenza – l’investimento in diamanti ritenuto come sicuro, senza fornire le adeguate informazioni e addirittura spingendo alcuni clienti a disinvestire denaro per destinarlo all’acquisto delle pietre, accogliendo in modo acritico il materiale informativo predisposto dalle due società venditrici. Il Garante ha affermato che “il fatto che l’investimento fosse proposto da parte del personale bancario e la presenza del personale bancario agli incontri tra i due professionisti e i clienti, forniva ampia credibilità alle informazioni contenute nel materiale promozionale delle due società, determinando molti consumatori all’acquisto senza effettuare ulteriori accertamenti.”.
Del resto, le banche rappresentavano il principale canale di vendita dei diamanti, ed avevano stipulato con I.D.B. e D.P.I. particolari accordi commerciali, che portavano nelle loro casse commissioni crescenti in base al volume di collocamento delle pietre presso la loro clientela.
Se è vero che ad oggi entrambe le società hanno fatto ricorso al T.a.r. contro il provvedimento del Garante, è anche vero che nel frattempo sono stati aperti tavoli con le principali associazioni dei consumatori per modificare le pratiche di commercializzazione dei diamanti.
Nessun dubbio, però, sul fatto che i due provvedimenti Antitrust, avendo accertato determinate condotte in violazione alla Legge, abbiano aperto la strada alla tutela giurisdizionale di quei risparmiatori che con i diamanti hanno solo perso denaro.
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