I centri storici delle principali città italiane sono tutti interessati dal fenomeno della c.d. movida. Intere zone sono ormai divenute punti di aggregazione per centinaia di avventori – più o meno giovani – che non solo si recano in ristoranti e pub ma vi stazionano fuori, affollando strade e vicoli e creando una serie di difficoltà a chi risiede nei dintorni. Una di queste difficoltà – forse la maggiore – è data dal rumore generato da un grande numero di persone; rumore che nei vicoli dei nostri centri storici si propaga e si amplifica, rendendo impossibile il riposo ai residenti.
Molte amministrazioni locali hanno cercato di far dialogare le associazioni di categoria con i residenti, in modo da stabilire regole di convivenza condivise, che possano tenere in considerazione gli interessi delle attività economiche di ristorazione unitamente al diritto al riposo delle persone. In molti casi, però, questi tentativi non hanno funzionato e si è giunti ad episodi di esasperazione, che hanno travalicato i limiti della semplice protesta. Per restare alla nostra realtà locale, fecero scalpore, un anno fa, le secchiate d’acqua lanciate da un residente sui tavoli affollati del locale sottostante la sua abitazione.
Se per il rumore che proviene dall’interno dei locali, o da musica installata dai gestori, vi possono essere idonei strumenti civili e penali, nei confronti delle persone che stazionano in strada fino a tarda ora, spesso dopo l’orario di chiusura degli esercizi (e che spesso nei locali nemmeno ci entrano), la questione è più complicata.
Il caso di Brescia
Due coniugi bresciani, però, non si sono dati per vinti e hanno trascinato in Tribunale il Comune, colpevole, a detta loro, di non fare nulla per impedire il caos nelle strade della movida. Caos che genera rumore e che aveva causato ai due quotidiani disagi e notti insonni (sfociati in stati d’ansia) tanto da arrivare al punto di dover cambiare gli infissi (e tentare anche di vendere casa). A dirla tutta, prima della causa civile i due coniugi avevano inviato numerose diffide al Comune di Brescia, affinché ponesse rimedio alla situazione del rumore generato dagli avventori dei locali della movida, ed avevano anche promosso ricorso al T.a.r., per far sì che il Comune adottasse un provvedimento di rimozione dell’inquinamento acustico. Provvedimento che poi era stato adottato, e che consisteva nella riduzione dell’orario di apertura dei locali (00:30 durante la settimana, 1:00 nel weekend), che tuttavia non aveva risolto il problema.
Da ciò la richiesta al Tribunale di far cessare le emissioni sonore e di ottenere il risarcimento del danno. Il fondamento della richiesta è l’art. 844 Cod. civ., di cui ci siamo già occupati a lungo nella scorsa newsletter, quando abbiamo parlato della puzza di fritto. In quel caso le emissioni erano odorose, qui sono sonore, ma il principio del superamento della normale tollerabilità rimane lo stesso, così come il rimedio dell’inibitoria. A ciò si aggiunga la richiesta di risarcimento del danno, che segue le regole della responsabilità civile ex art. 2043 Cod. civ., in questo caso per aver tenuto condotte di tipo omissivo.
Con la sentenza del 6.09.2017 la Sezione I Civile del Tribunale di Brescia dà ragione in pieno alla coppia di residenti del centro storico. E lo fa senza nemmeno disporre una consulenza tecnica in corso di causa, ma basandosi su rilievi fonometrici – eseguiti da tecnici comunali prima dell’instaurazione del giudizio – e su testimonianze di residenti e funzionari comunali.
Curiosa la preliminare definizione di movida, data dal Tribunale riprendendo la terminologia usata dallo stesso Comune di Brescia: “il fenomeno caratterizzato dal fatto che un elevato numero di persone (nell’ordine del migliaio in alcune occasioni) staziona l’esterno degli esercizi pubblici di cui sopra, occupando la pubblica via, consumando bevande per lo più alcoliche e trattenendosi in loco fino ad ore molto tarde (anche oltre le 2.00 di notte)”.
L’inibitoria delle immissioni di rumore ed il risarcimento del danno
Testimonianze di residenti, unitamente a numerose fotografie prodotte in giudizio e a rapporti che il servizio di volontari costituito dagli esercenti (“City Angels”) inviava al Comune, hanno portato il Giudice a ritenere che il rumore derivasse proprio dalla movida, costituita frequentemente anche da persone in stato di alterazione alcolica. A ciò si aggiungevano i rilievi fonometrici svolti dal tecnico comunale e acquisiti al processo, che avevano rilevato un significativo aumento della rumorosità (nell’ordine di 20 db) negli orari di apertura dei locali. Anche il T.a.r., cui i residenti si erano rivolti in precedenza, aveva accertato l’esistenza d’inquinamento acustico notturno, particolarmente dannoso per la salute delle persone.
Da tutto ciò è scaturito l’ordine al Comune di far cessare le condotte rumorose, che eccedono la normale tollerabilità, mediante l’adozione dei provvedimenti più idonei allo scopo.
Per quanto riguarda, invece, la richiesta di risarcimento del danno fatta dai coniugi al Comune, il Tribunale ritiene che l’Ente locale sia responsabile per non avere fatto niente al fine di prevenire gli schiamazzi provenienti dall’assembramento di persone lungo le strade della movida; schiamazzi che generano immissioni di rumore intollerabili per i residenti e dannose per la loro salute. In particolare il Tribunale ritiene che alcune misure adottate e documentate dal Comune, come l’aumento di pattuglie di Polizia Municipale, l’anticipazione degli orari di chiusura dei locali e della pulizia strade, siano del tutto insufficienti. Particolarmente rilevante in questo frangente è stata la testimonianza di un agente di Polizia Municipale, il quale ha affermato che il loro servizio era di presenza e che non avevano mai fatto allontanare le persone perché, a parte il rumore, non vi erano ragioni di sicurezza per farlo, oltre al fatto che gli uomini sarebbero stati insufficienti per una simile operazione. La condotta del Comune è stata ritenuta significativamente negligente anche perché il fenomeno della movida avviene in giorni della settimana definiti e ad orari sempre uguali, cosicché è tutto fuorché imprevedibile per l’amministrazione.
Indubbio poi il nesso di causa tra condotta negligente del Comune e danno, posto che è dimostrato dai rilievi fonometrici acquisiti che il rumore è causato dalla folla di persone che si raduna fuori dai locali.
Per quantificare il danno, il Tribunale fa applicazione del principio stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 2611/2017, già esaminata nella precedente news sulla puzza di fritto. Viene così liquidato in via equitativa un danno non patrimoniale derivante dalla lesione del normale svolgimento della vita quotidiana, che il Giudice bresciano liquida in € 50,00 a sera (per un totale di € 20.000,00 a coniuge). A ciò si aggiunge il riconosciuto danno patrimoniale per l’installazione dei nuovi infissi, ma non quello da deprezzamento dell’immobile.
Eventuali problemi applicativi
Questa pronuncia ha avuto immediata risonanza sui media nazionali, oltrepassando i confini della provincia bresciana, fornendo speranze a residenti esasperati di tutta Italia, che pare possano trovare nell’amministrazione comunale un bersaglio qualificato per le loro richieste (anche) risarcitorie.
Tuttavia la strada giudiziaria non è mai semplice, perché nessun caso è uguale all’altro. Basti pensare alla diversità di materiale probatorio che può presentarsi in casi analoghi. I coniugi bresciani avevano dalla loro numerosi testimoni, fotografie, rapporti e rilievi fonometrici effettuati da tecnici comunali; addirittura è andata a loro favore la testimonianza di un agente di Polizia Municipale. L’insieme di questi elementi ha permesso al Giudice di decidere senza disporre un’indagine fonometrica in corso di causa. Non sempre, però, queste situazioni si verificano. Basti pensare che alcuni Comuni italiani hanno tempi biblici per eseguire indagini tecniche su richiesta dei propri residenti, e che in mancanza di ciò l’interessato dovrà provvedere con un professionista di fiducia che non solo sarà più costoso, ma rischia anche di essere screditato in giudizio perché “di parte”.
A quelle che, in fondo, sono le difficoltà di qualunque giudizio si aggiunge una perplessità dettata dal contenuto dell’inibitoria cui il Tribunale di Brescia ha condannato il Comune. Se, infatti, possono sorgere pochi dubbi in merito alla condanna del Comune a risarcire il danno ai residenti, stabilire quali possano essere i provvedimenti più idonei a far cessare il rumore di persone che si ritrovano per la pubblica via non è cosa da poco.
Il giudice di Brescia, sia nella motivazione che nel dispositivo della sentenza, osserva che “la sola misura che si presenta efficace ai fini della risoluzione del problema è la predisposizione di un servizio di vigilanza, organizzato per tutte le sere dal giovedì alla domenica nei mesi da maggio a ottobre, con l’impiego di agenti comunali che si adoperino, entro la mezz’ora successiva alla scadenza dell’orario di chiusura degli esercizi commerciali autorizzati, a far disperdere ed allontanare dalla strada comunale Via Fratelli Bandiera le persone che stazionano lungo la stessa e che non se ne allontanano spontaneamente”.
Se in astratto questo pare l’unico rimedio immaginabile contro il rumore antropico, in concreto possiamo sostenere che il Comune abbia l’autorità di disporre sgomberi coatti di suolo pubblico? È sufficiente il danno causato ai residenti o sono necessarie anche ragioni di ordine pubblico? E, in ogni caso, l’ente locale ha la competenza per procedere o – come sostengono a Brescia – si ricade in materia attribuita alla Prefettura? Ciò che appare evidente, infatti, è la necessità di un non facile bilanciamento tra diritti costituzionali, tra cui quello alla salute dei residenti e quello di riunione degli avventori dei locali. Ad ogni modo, la sentenza è stata appellata dal Comune (che ritiene la situazione attuale migliorata e non più come descritta dal Tribunale), per cui avremo modo di seguire l’evoluzione della vicenda, bresciana e non solo. Non è detto, infatti, che altri residenti non si facciano avanti in altre parti d’Italia, sottoponendo il problema ai locali Tribunali.
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