Il tema del costo di una causa è certamente una questione rilevante per il cittadino che sia costretto a rivolgersi alla giustizia per la tutela di un proprio diritto.
Il “servizio giustizia” rappresenta uno dei servizi fondamentali di uno Stato democratico e trova adeguata tutela nella nostra Costituzione. In quanto tale, vi sarebbe l’aspettativa che lo Stato possa assicurare il funzionamento a costo zero per i suoi utenti. Tuttavia, la situazione anche delle più evolute democrazie occidentali è tale per cui la gratuità del servizio è del tutto estranea agli attuali orizzonti, tanto da far dichiarare a più di un commentatore che la giustizia è ormai “solo per ricchi”. In realtà, l’ordinamento del nostro paese conosce alcune forme di modesta tutela per le persone in maggior difficoltà: si pensi alla normativa sul gratuito patrocinio (contenuta nel D.P.R. n. 115/2002 sulle spese di giustizia).
Ma procediamo con ordine, nel tentativo di spiegare – seppur brevemente – i principali caratteri dei costi del processo civile in Italia, e quindi cosa si debba attendere il cittadino che, costretto da un’ingiustizia altrui, si debba rivolgere all’assistenza di un avvocato per intraprendere una causa (non ci stancheremo mai di ripetere che un’assistenza preventiva, chiedendo consiglio ad un avvocato, potrebbe evitare tanti contenziosi).
Tanto per cominciare, il costo che richiede lo Stato non rappresenta la totalità delle spese, essendo da tenere presente anche il costo del professionista al quale ci si rivolge per l’assistenza. Il costo di un giudizio è infatti rappresentato dagli esborsi, che hanno il carattere di veri e propri tributi, quali il contributo unificato per l’iscrizione a ruolo, l’imposta di registro, o per prestazioni espletate da funzionari statali (cancellieri, ufficiali giudiziari) ed i compensi necessari per l’attività di soggetti privati (difensori, consulenti tecnici). I primi (i tributi) costituiscono il corrispettivo chiesto dallo Stato per la prestazione del servizio giustizia.
La disciplina prevista nel Codice di procedura civile.
Il principio generale nel nostro ordinamento è che il costo, in via di massima, non può andare a danno della parte vittoriosa; della parte, cioè, che per vedere riconosciuto il proprio diritto sia stata costretta a ricorrere alle vie giudiziarie. Si tratta di un principio coerente con il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione.
La disciplina delle spese processuali è prevista dal Codice di procedura civile, che all’art. 90, ormai abrogato, prevedeva innanzitutto che ciascuna parte dovesse provvedere nel corso del processo “alle spese degli atti che compie e di quelli che chiede e deve anticiparle”.
Il successivo art. 91 c.p.c. prevede che il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altre parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Addirittura, se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta. Insomma, è sancito il principio “chi perde paga”, e chi anche vince ma ha fatto lavorare i tribunali perché non ha accettato una proposta conciliativa che si è rivelata identica, nei contenuti, alla sentenza, paga lo stesso. Si tratta di una regola tesa a sanzionare l’abuso dello strumento processuale. Al tempo stesso, la previsione di una condanna alle spese nel caso di rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa è ispirata al dichiarato intento di favorire lo spirito transattivo e di rafforzare le sanzioni processuali, nell’ottica di una più incisiva valutazione del comportamento delle parti: si tratta di una disposizione fortemente innovatrice.
In tema di spese processuali, soltanto la parte completamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno in minima quota, al pagamento delle spese stesse. Qualora, invece, ricorra la soccombenza reciproca (ma anche in caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti: art. 92 c.p.c) è rimesso all’apprezzamento del giudice, che deve indicare espressamente le ragioni alla base della sua scelta, decidere se ed in quale misura debba farsi luogo a compensazione. In altre parole, se nessuna delle parti ha completamente ragione, può darsi che entrambe debbano pagare.
Il principio per cui le spese seguono la soccombenza ha conosciuto recenti eccezioni, operanti un correttivo per evitare che si giunga a risultati iniqui in favore della parte vittoriosa.
Così, l’art. 92 c.p.c. prevede che il giudice, nel pronunciare la condanna alle spese, può – con ampia discrezionalità – escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; può, inoltre, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88 c.p.c. (si tratta del dovere delle parti e dei difensori di comportarsi con lealtà e probità in giudizio) essa ha causato all’altra parte.
Per spese eccessive s’intendono gli esborsi che, pur dipendenti da atti necessari per le finalità difensive, risultano sproporzionati ed esorbitanti rispetto al loro fine. L’altra deroga, invece, ossia la condanna alle spese (anche non ripetibili) che una parte ha causato all’altra per trasgressione del dovere di lealtà e probità, sanziona un contegno processuale illecito serbato dalla parte con dolo o colpa. In questo caso, quindi, destinataria della condanna può essere anche la parte vittoriosa in giudizio. Potendo avere ad oggetto anche esborsi relativi a singoli atti conseguenti alla slealtà ed improbità oppure a spese dell’intero giudizio, la finalità sanzionatoria di questa disposizione è evidente.
La condanna per lite temeraria.
Particolarmente interessante, in un momento storico in cui il ricorso ai tribunali sta diventando un costo sempre più da evitare per lo Stato, che a sua volta finisce per scaricarlo sui cittadini con imposte e tasse varie, è la possibilità per il giudice di condannare la parte soccombente per responsabilità aggravata – o per lite temeraria, come ormai si dice nel linguaggio comune (art. 96 c.p.c.).
In sostanza, se una parte perde una causa che ha iniziato – o nella quale ha resistito in giudizio – con mala fede o colpa grave, l’altra può chiedere che, oltre alle spese, essa sia condannata al risarcimento dei danni, che saranno liquidati dal giudice nella sentenza. Si tratta di una vera e propria misura risarcitoria e non sanzionatoria, posto che il vittorioso è stato costretto a subire un giudizio per colpa dell’atteggiamento della controparte, che ha addotto argomenti a suo favore manifestamente infondati; giudizio che può aver provocato un danno da risarcire.
Per mala fede s’intende, infatti, la coscienza dell’infondatezza della domanda proposta in giudizio, mentre la colpa grave è un’imprudenza o trascuratezza elevata per il mancato impiego di un minimo di diligenza, sufficiente a far avvertire l’ingiustizia della pretesa avanzata in causa. La Corte di Cassazione ha ritenuto che tali elementi possano essere desunti anche da nozioni di comune esperienza applicate alle condotte processuali dilatorie o defatigatorie della parte, le quali possono provocare di per sè oltre a danni patrimoniali anche danni di natura psicologica.
Il medesimo articolo stabilisce, al terzo comma, che, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese il giudice possa, anche d’ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento a favore della vittoriosa di una somma equitativamente determinata. Si tratta di una previsione diversa dal risarcimento per lite temeraria, totalmente disancorata da una richiesta di parte e avente natura, secondo parte dei commentatori, di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzione del sistema giustizia (su questa lunghezza d’onda anche il Tribunale di Prato nella sentenza del 6.11.2009). In ogni caso, pare che i presupposti in base ai quali il giudice possa prevedere questa condanna siano i medesimi della lite temeraria.
Chi paga l’avvocato?
Sembra una domanda retorica, ma non lo è affatto. Abbiamo detto, in via di prima approssimazione, che: chi perde deve pagare le spese del giudizio della parte vittoriosa; se nessuna delle due parti vince del tutto (ognuna ha ragione su un punto, ad esempio) il giudice può compensare le spese (quindi far pagare un po’ all’una ed un po’ all’altra, o decidere che ognuno si paghi le sue spese); anche chi vince non sempre ha diritto a vedersi pagate dall’avversario ogni genere di spese; chi perde può essere condannato a risarcire il danno per lite temeraria o a pagare una somma stabilita dal giudice.
Come già detto, l’art. 91 c.p.c. prevede che oltre alle spese il soccombente debba pagare gli onorari di difesa, dunque il compenso professionale del difensore di controparte (ma ricordiamo che anche i compensi dei consulenti tecnici rientrano nel concetto di spese processuali).
Il compenso è determinato in base ad una serie di parametri che hanno sostituito le vecchie tariffe, oggi previsti dal D.M. n. 55/2014. In sentenza, il giudice liquida anche il compenso del difensore e lo pone a carico della parte condannata a pagare le spese processuali. Questo, però, non significa che la parte soccombente debba dare direttamente i soldi all’avvocato della controparte.
La condanna, infatti, è pronunciata a favore della parte vittoriosa, la quale avrà diritto ad ottenere dall’altra il pagamento di tutte le spese, comprese le somme liquidate dal giudice a titolo di compenso professionale. Sarà questa che poi dovrà versare le somme al proprio difensore. Da sottolineare come al compenso liquidato in sentenza, e in generale a quello previsto nel D.M. n. 55/2014, vada aggiunto il rimborso per spese forfettarie, pari al 15% del compenso totale, nonché l’i.v.a. e 4% di contributo per la Cassa Forense.
L’importo così determinato dovrà dunque essere pagato dal cliente al proprio legale. In fondo, la parte vittoriosa ha riscosso denaro che, per quell’importo, spetta al suo difensore.
Solo in un caso, è prevista la possibilità per il soccombente di pagare direttamente il legale di controparte, ossia quando quest’ultimo ne abbia fatta espressa richiesta in sede di precisazione delle conclusioni. Ai sensi dell’art. 93 c.p.c., infatti, il giudice può autorizzare quella che si chiama distrazione in favore del difensore di onorari non riscossi e di spese che dichiara di aver anticipato.
Tuttavia, poiché non è raro che l’avvocato riscuota alcune somme per conto del proprio cliente, tanto più se vittorioso in giudizio, il Codice deontologico forense si preoccupa di dettare norme che impediscano eventuali abusi. Così, l’avvocato non deve subordinare al riconoscimento di propri diritti, o all’esecuzione di prestazioni particolari da parte del cliente, il versamento a questi delle somme riscosse per suo conto, né subordinare l’esecuzione di propri adempimenti professionali al riconoscimento del diritto a trattenere parte delle somme riscosse per conto del cliente o della parte assistita (cfr. art. 29). Ancora, non deve trattenere oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita, senza il consenso di quest’ultima (cfr. art. 30). Tuttavia, l’art. 31 prevede i casi in cui l’avvocato possa trattenere somme riscosse per conto del cliente, a titolo di compensazione. Si tratta del caso in cui l’avvocato abbia sostenuto anticipazioni di spese (con obbligo di avvisare il cliente della compensazione) o quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e non ancora corrisposte dal cliente, oppure ancora quando abbia già formulato una richiesta di pagamento espressamente accettata dal cliente.
Ricordiamo, infine, che l’art. 13 della Legge professionale forense (L. n. 247/2012) obbliga l’avvocato, qualora il cliente ne faccia richiesta, a fornire preventivo scritto nel quale siano distinte le spese, gli oneri e il compenso professionale per la causa che si andrà ad affrontare.