Quello che sembra un argomento riservato agli esperti del settore ha, in realtà, un risvolto pratico fondamentale sulla realtà delle imprese in crisi, che spesso si sono viste addirittura negare l’accesso alla procedura di concordato preventivo. Ciò è avvenuto in base ad un’interpretazione giurisprudenziale in materia di riscossione dell’i.v.a. cui la Sezione II della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 7 aprile 2016 (Causa C-546/2014), sembrerebbe aver messo fine.
I termini della questione.
All’interno della procedura di concordato preventivo è possibile procedere ad una transazione fiscale, disciplinata dall’art. 182-ter del R.D. 267/1942 (Legge fallimentare), il quale stabilisce che, con riferimento all’i.v.a., si possa prevedere solo una dilazione di pagamento, dunque non un suo versamento parziale. Questa norma è stata interpretata dalla Corte di Cassazione (cfr. da ultimo ordin. n. 2560/2016) come avente natura sostanziale ed applicabile a tutti i concordati preventivi, anche a quelli in cui non veniva stipulata una transazione fiscale. A questa interpretazione hanno finito per aderire anche moltissimi Tribunali, e del resto anche la Corte costituzionale (cfr. sent. n. 225/2014) ne aveva avallato la fondatezza.
Come notato da buona parte della dottrina giuridica e commercialistica, ritenere che non si potesse proporre una domanda di concordato preventivo senza prospettare l’integrale soddisfacimento del credito i.v.a. dello Stato, creava una sorta di super-privilegio o, addirittura, di prededuzione del credito medesimo. In altre parole, si finiva per sovvertire per via giurisprudenziale l’ordine delle cause di prelazione previste dal legislatore, dando la precedenza alla riscossione di un’imposta indiretta a scapito degli altri creditori, anche se privilegiati di grado anteriore (ricordiamo che l’art. 2778 Cod. civ. attribuisce all’i.v.a. privilegio sui mobili collocandola al 19° posto).
Come accennato in apertura, questa interpretazione estensiva dell’art. 182-ter L. fall. Ha portato ad alcune pronunce di inammissibilità delle domande di concordato che non prevedessero un integrale pagamento dell’i.v.a., nonostante fosse presente l’attestazione di un esperto indipendente che tale credito non avrebbe ricevuto un trattamento migliore in caso di fallimento. Oppure, in altri casi, sono state concentrate le risorse residue del debitore a vantaggio dell’erario ed a scapito di altri creditori privilegiati o, addirittura, non è stata nemmeno presentata la domanda di concordato, a scapito delle possibilità di risanamento del debitore.
Perché è intervenuta la Corte di Giustizia.
L’imposta sul valore aggiunto è oggetto di armonizzazione a livello europeo ed è presa in considerazione dalla direttiva 2006/112/Ce del 28.11.2006. I giudici italiani giustificavano le proprie interpretazioni anche (ma non solo) sul fatto che uno Stato membro dell’Unione non possa rinunciare indiscriminatamente al prelievo dell’i.v.a., ma anzi debba garantire il suo prelievo integrale, provvedendo così alla riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione Europea. Infatti, queste ultime comprendono le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili i.v.a. armonizzati, determinati secondo regole europee.
Il Tribunale di Udine, con l’ordinanza del 30.10.2014, ha dubitato di tale interpretazione della normativa europea ed ha operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, chiedendo se sia compatibile con il diritto dell’Unione la normativa nazionale “tale per cui sia ammissibile una proposta di concordato preventivo che preveda, con la liquidazione del patrimonio del debitore, il pagamento soltanto parziale del credito dello Stato relativo all’IVA, qualora non venga utilizzato lo strumento della transazione fiscale e non sia prevedibile per quel credito – sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente e all’esito del controllo formale del Tribunale – un pagamento maggiore in caso di liquidazione fallimentare.”.
La soluzione interpretativa della Corte di Giustizia.
La corte europea ha risolto la questione in maniera piuttosto lineare – quasi manifestando una certa sorpresa, secondo alcuni commentatori – ribaltando l’interpretazione offerta dai giudici nazionali e togliendo loro una delle principali giustificazioni all’inammissibilità della falcidia dell’i.v.a. nelle procedure di concordato preventivo.
Dopo aver affermato che, nell’ambito della disciplina europea dell’i.v.a., gli Stati membri hanno piena libertà di regolazione, limitata solo dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione europea e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, la Corte ha analizzato la disciplina del concordato preventivo, ritenendo che essa preveda determinate garanzie per il recupero dei crediti privilegiati, tra cui quello i.v.a. Infatti, in primo luogo, il pagamento parziale di un credito privilegiato è ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non riceverebbe un trattamento migliore in caso di fallimento (come a dire che lo Stato quel credito non lo potrebbe realizzare in misura maggiore rispetto a quanto offerto). In secondo luogo, il creditore che nella proposta non è integralmente soddisfatto è ammesso al voto, potendo esprimere volontà contraria all’approvazione del concordato. Infine, sono previste le opposizioni, tra cui quella successiva all’omologa, così da poter sottoporre la proposta concordataria all’esame di un giudice.
Ecco che, da questa semplice analisi, la Corte di Giustizia rileva come la normativa italiana non comporti affatto una rinuncia indiscriminata alla riscossione i.v.a. in grado di minare le risorse dell’Unione, come sosteneva in blocco la giurisprudenza nazionale.
L’esito di questa decisione è stato salutato con favore dai primi commentatori, che del resto hanno da sempre rilevato come non fosse in contrasto con la normativa europea la riscossione parziale dell’i.v.a. che sia dipesa da un patrimonio insufficiente del debitore. Di conseguenza, le implicazioni di un pagamento parziale si potranno avere in sede di transazione fiscale (con sua impossibilità di utilizzo in caso di falcidia i.v.a.) e di voto nel concordato, momento in cui lo Stato potrà far valere il proprio dissenso, dovendo comunque sottostare alla decisione della maggioranza dei creditori. Come da più parti notato – e sottolineato dalla Corte di Giustizia – a fronte di risorse limitate ed insufficienti del debitore, una soddisfazione parziale del credito i.v.a. (purché con la medesima percentuale che avrebbe ricevuto in caso di fallimento), considerando la posizione occupata dal medesimo nell’ordine dei privilegi stabilito dalla Legge, non può porre alcun problema di effettività della riscossione; del resto, a fronte di un patrimonio limitato, lo Stato non potrebbe riscuotere altro, né in sede concordataria né in altre procedure. Insomma, la disciplina del concordato preventivo non prevede alcuna rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’i.v.a. – come temuto dalla Cassazione – cosicché nessun argomento di diritto sovranazionale potrà essere invocato per impedire la falcidia dell’imposta nelle proposte concordatarie.