La deontologia è il complesso delle regole di condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale, la violazione delle quali comporta sanzioni giuridiche per l’avvocato. Tali sanzioni sono applicate in seguito ad un provvedimento del Consiglio Distrettuale di Disciplina, che ha sede presso ogni Corte d’Appello sul territorio nazionale. Le norme di deontologia per l’avvocato si trovano nel nuovo Codice deontologico forense, approvato il 31 gennaio 2014 dal Consiglio Nazionale Forense.
Art. 13 – Dovere di segretezza e riservatezza
“L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali.”
Questa disposizione è contenuta nel Titolo I del Codice deontologico, che prevede i principi generali cui deve essere improntata l’attività dell’avvocato. La riservatezza ed il segreto su ogni notizia che l’avvocato riceve dal proprio cliente sono componenti fondamentali della sua attività professionale; si potrebbe dire che ne costituiscono il fondamento, non potendo instaurarsi un rapporto di fiducia mancando questi presupposti. La segretezza copre tutta le notizie ottenute durante lo svolgimento di qualsiasi attività: sia essa di consulenza, stragiudiziale, o processuale.
Si tratta di una norma che tutela sia la parte assistita che il difensore. La prima potrà confidare ogni suo problema all’avvocato senza temere che un giorno questo diventi di dominio pubblico. Il professionista è allo stesso tempo garantito nella sua libertà ed indipendenza, non potendo assistere al meglio una persona senza poter opporre, in determinati casi il segreto professionale. Ecco che, allora, il Codice penale punisce all’art. 622 la rivelazione di segreto professionale e al tempo stesso il Codice di procedura penale prevede, agli artt. 200, 256 e 362 la possibilità per il difensore di eccepire il segreto professionale rispettivamente in sede di testimonianza, di richiesta di esibizione di documenti o consegna di atti e di assunzione d’informazioni da parte del p.m. Anche il Codice di procedura civile, all’art. 249 consente all’avvocato di astenersi dal testimoniare su fatti coperti dal segreto professionale.
L’art. 13 deve essere letto assieme all’art. 28, rubricato Riserbo e segreto professionale. Questa disposizione prevede che l’obbligo del segreto sussista anche quando il mandato è terminato o rinunciato, e che l’avvocato si debba adoperare per far mantenere il segreto anche dai collaboratori di studio e dai praticanti. Solo in alcuni casi è consentito derogare a tale obbligo, e sempre nella misura strettamente necessaria: per lo svolgimento dell’attività di difesa; per impedire un reato di particolare gravità; per allegare fatti in controversie tra avocato e cliente o parte assistita; nell’ambito di una procedura disciplinare. Mentre l’art. 13 stabilisce il principio generale, è l’art. 28 a prevedere le sanzioni per la violazione del dovere di segretezza e riservatezza: la censura e, nel caso di violazione del segreto professionale, la sospensione da uno a tre anni.
Al di là delle norme che tutelano il segreto, come deve comportarsi il difensore per meglio tutelare segretezza e riservatezza del cliente e della parte assistita? Ce lo dicono alcune pronunce del Consiglio Nazionale Forense che, ad esempio, ha affermato che l’avvocato ha “il vincolo di tenere riservata la stessa esistenza del rapporto, con particolare riguardo alla trattazione/esternazione dell’oggetto del mandato difensivo”, non potendo farsi pubblicità mostrando chi sono i suoi clienti (cfr. C.N.F., sent. n. 130/2013). Addirittura, deve adottare alcune cautele per non mettere in vetrina i propri clienti, nel caso di uno studio fronte strada con vetri non schermati (cfr. C.N.F., sent. n. 37/2013).