Grande scalpore ha suscitato la scorsa primavera la sentenza n. 11504 del 10.05.2017 della Sezione I della Corte di Cassazione, che ha rivoluzionato l’orientamento in materia di riconoscimento dell’assegno divorzile a vantaggio del coniuge più debole. A distanza di qualche mese cerchiamo dunque di capire quale sia il principio affermato da questa pronuncia, che applicazione ne hanno fatto nel frattempo i Tribunali e quali sono gli scenari che si prospettano.
Mantenimento, alimenti, assegno divorzile: un po’ di chiarezza
Una prima e necessaria premessa è quella terminologica: l’istituto su cui è intervenuta la Corte di Cassazione nel maggio scorso è l’assegno divorzile, previsto dall’art. 5, sesto comma, della L. n. 898/1970 (c.d. Legge sul divorzio). Questa disposizione recita: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. È bene tenere fin da subito in considerazione la lettera di questa norma perché, come avremo modo di vedere, è proprio a partire da essa che la Corte di Cassazione ricostruisce l’istituto e – in una certa misura – ne rivoluziona l’applicazione.
Diverso dall’assegno divorzile è l’assegno di mantenimento. Questo è previsto in caso di separazione personale dei coniugi dall’art. 156 Cod. civ., che stabilisce: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. E subito ai due commi successivi si preoccupa di affermare che “L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato” e che “Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti”.
Istituto diverso è poi l’obbligazione degli alimenti, anche se nel linguaggio comune spesso si utilizza questo termine per fare riferimento ai contributi che uno dei coniugi (o meglio, ex coniugi) versa nei confronti dell’altro. Previsti dall’art. 433 e ss. Cod. civ., gli alimenti non devono essere prestati solo dall’ex coniuge. Si tratta, in realtà, di un’obbligazione di natura assistenziale dovuta per legge alla persona che si trova in stato di bisogno economico e basata su presupposti diversi da quelli degli altri due istituti richiamati. Infatti, l’art. 438 Cod. civ. stabilisce che “Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento.
Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale”.
La Cassazione e l’assegno divorzile: le due valutazioni da compiere
La sentenza n. 11504/2017 è dunque intervenuta sull’assegno divorzile, partendo dal presupposto per cui una volta sciolto il vincolo matrimoniale con il divorzio i coniugi debbano essere considerati persone singole, sia per quanto riguarda i loro rapporti economico-patrimoniali, sia con riferimento al reciproco dovere di assistenza morale e materiale (rimangono validi, invece, gli obblighi derivanti dalla potestà genitoriale).
A partire dal dettato dell’art. 5 della Legge sul divorzio, sopra richiamato, la Cassazione ritiene che in ordine all’attribuzione del diritto all’assegno divorzile si debbano effettuare due valutazioni, la seconda consequenziale alla prima: la spettanza o meno dell’assegno (l’an) e la sua quantificazione (il quantum).
Proprio in relazione alla quantificazione, la Cassazione afferma che essa deve essere fatta non in ragione del rapporto matrimoniale, ormai estinto anche nella sua dimensione economica, ma in considerazione di esso (“tenuto conto” dice l’art. 5 della Legge sul divorzio).
Per quanto riguarda la spettanza dell’assegno, la Corte ritiene opportuno sottolineare come esso sia un istituto di solidarietà economica, che non deve procurare un ingiusto guadagno al coniuge beneficiario. Ecco perché, nel rispetto del dettato normativo, occorre prestare particolare attenzione all’eventuale presenza di mezzi adeguati dell’ex coniuge richiedente o alle effettive possibilità di procurarseli; in altre parole alla sua eventuale indipendenza o autosufficienza economica. Fattori che, se esistenti, sono in grado di escludere in radice l’an del diritto all’assegno. Naturalmente, l’onere di provare che sussistono i requisiti per la concessione dell’assegno divorzile è a carico dell’ex coniuge che lo richiede.
Fin qui nessun problema, nel senso che la Corte si è limitata a riprendere il dettato normativo, ponendo particolare attenzione su quali siano le valutazioni che il giudice deve compiere per riconoscere o meno questa prestazione al richiedente. Il punto centrale, però, è che la terminologia del legislatore richiede di essere interpretata, e su questo punto la Cassazione del 2017 ha detto la sua in modo molto diverso rispetto a prima.
L’adeguatezza o meno dei mezzi dagli anni ’90 ad oggi
Infatti, stabilire quali siano i parametri per ritenere che i mezzi di chi richiede l’assegno siano adeguati o meno, e se questi abbia o no la possibilità di procurarseli, non è un’operazione immediata, data la necessità di capire quale sia il parametro di adeguatezza.
Fino alla pronuncia che qui ci interessa, la Cassazione aveva adottato un criterio affermatosi con forza in seguito alle sentenze a Sezioni Unite nn. 11490 e 11492/1990, e cioè quello per cui il termine di paragone per stabilire se i mezzi dell’ex coniuge fossero adeguati o meno era il “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”.
È proprio questo criterio che è stato oggetto di ribaltamento lo scorso mese di maggio, non ritenendo la Corte che esso fosse ancora attuale, per una serie di ragioni.
Le ragioni del cambio di prospettiva
In primo luogo – afferma la Cassazione – se il matrimonio si scioglie con la sentenza di divorzio, il voler parametrare il diritto o meno all’assegno divorzile al tenore di vita tenuto durante il rapporto finisce proprio per ripristinarlo, anche se limitatamente all’ambito economico ed in prospettiva futura. Il diritto all’assegno, infatti, deve essere riconosciuto tenendo in considerazione l’ex coniuge come persona singola; le condizioni economiche del matrimonio (ormai preesistente) possono essere, infatti, tenute in considerazione solo al momento della quantificazione dell’importo dell’assegno, non dunque per stabilire se il richiedente ne ha diritto o no.
La Cassazione, infatti, ritiene che l’applicazione del criterio interpretativo del tenore di vita in costanza di matrimonio abbia portato ad una evidente commistione delle due fasi valutative (l’an e il quantum), che invece devono essere distinte ed autonomamente disciplinate.
In secondo luogo, l’orientamento che si era formato dal 1990 in poi aveva avuto l’obiettivo di contemperare la nuova concezione patrimonialistica del matrimonio con l’esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dall’esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, sorti in epoche molto anteriori alla riforma del diritto di famiglia. L’esigenza di un orientamento che non rompesse con la precedente tradizione, però, si era molto attenuata nel corso degli anni, tanto che la Corte ritiene che nel 2017 si possa parlare di matrimonio come atto di libertà e di auto-responsabilità, oltre a luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita. In altri termini, un legame che – in quanto libero e fondato su affetti – è anche possibile sciogliere quando le condizioni per la comunione di vita non ci sono più.
Queste considerazioni portano ad una conseguenza fondamentale: “L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile […] non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.” Secondo il ragionamento della Corte, le uniche condizioni economiche che si devono tenere in considerazione quando si deve stabilire se riconoscere o meno il diritto all’assegno sono quelle del soggetto che lo richiede, senza effettuare paragoni tra le diverse situazioni degli ex coniugi.
Il nuovo parametro di riferimento e gli indici individuati dalla Corte
Se così stanno le cose, si comprende bene perché la Cassazione sostituisca il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio con il criterio dell’indipendenza economica (o meno) dell’ex coniuge richiedente: “un parametro di riferimento siffatto – cui rapportare il giudizio sull’ “adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla “possibilità-impossibilità per ragioni oggettive” dello stesso di procurarseli – vada individuato nel raggiungimento dell’“indipendenza economica” del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.”
Si tratta, del resto, di un corollario del principio di auto-responsabilità, che governa il matrimonio e che “vale certamente anche per l’istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche”.
In altre parole, la Cassazione ha affermato che solo seguendo il criterio dell’indipendenza economica è possibile compiere una corretta valutazione in ordine alla spettanza o meno dell’assegno divorzile. Un eventuale giudizio comparativo tra le condizioni del singolo e quelle che aveva in costanza di matrimonio sarà giustificato soltanto nel momento in cui si debba quantificare l’ammontare dell’assegno di cui si è già riconosciuto il diritto all’erogazione.
Per stabilire quando uno degli ex coniugi possa essere ritenuto economicamente indipendente, la Corte di Cassazione nella sent. n. 11504/2017 individua una serie di indici di valutazione, tra cui si può menzionare il possesso di redditi o di beni immobili, la capacità lavorativa in relazione allo stato di salute e all’età, la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Spetterà a chi chiede l’assegno dare prova di non avere mezzi adeguati e di non poterseli procurare per ragioni oggettive, seguendo gli stessi indici ricostruiti dalla Corte, che a loro volta sono costitutivi del parametro dell’indipendenza economica. La prova dovrà essere fornita in maniera specifica, anche mediante presunzioni (soprattutto per quanto riguarda la capacità lavorativa) “fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative”.
Si tratta di un notevole cambio di prospettiva, che però è del tutto in linea con la normativa vigente, se è vero che l’art. 5 della Legge sul divorzio non parla mai, neppure indirettamente, del tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio come criterio applicativo dell’assegno divorzile.
Prime reazioni in giurisprudenza e prospettive future
La novità e la forza del ribaltamento di prospettiva operato dalla Cassazione sono tanto più evidenti se solo si pensa al fatto che il principio di diritto dovrà essere applicato anche a tutti i processi già pendenti al momento della pronuncia della Corte.
La giurisprudenza di legittimità si è immediatamente assestata sul nuovo principio affermato dalla Sezione I, facendone larga applicazione nelle pronunce immediatamente successive a quella fin qui esaminata. Da ultime si possono ricordare le due ordinanze della Sezione VI-1, nn. 20525 e 23602 del 2017. Entrambe affermano la necessità di un giudizio in due fasi (an e quantum dell’assegno), con onere della prova della non indipendenza economica a carico del richiedente. In particolare, nella seconda delle pronunce appena citate si può leggere “L’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere giustificata dal divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio, né dal peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, a tal fine rilevando unicamente la mancanza della indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Nella fase del giudizio concernente l’an debeatur, invero, il richiedente, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto, quale persona singola, a dimostrare la propria personale condizione di non indipendenza o autosufficienza economica. Alle condizioni reddituali dell’altro coniuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970), pertanto, può aversi riguardo unicamente nella eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dell’an debeatur si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’attribuzione dell’emolumento.”
Dopo nemmeno un mese dalla pronuncia della Cassazione, il Tribunale di Milano, Sezione IX Civile, con l’ordinanza del 22.05.2017, ha fatto applicazione dei nuovi principi, addirittura integrandoli con un ulteriore parametro. Il giudice milanese ha infatti ritenuto che “Un parametro (non esclusivo) di riferimento può essere rappresentato dall’ammontare degli introiti che, secondo le leggi dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (soglia che, ad oggi, è di euro 11.528,41 annui ossia circa euro 1000 mensili). Ulteriore parametro, per adattare “in concreto” il concetto di indipendenza, può anche essere il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita.”. Sulla scorta di queste valutazioni, che per riprendere la scansione in due fasi fatta propria della Cassazione, sono svolte al momento di verificare la spettanza (l’an) dell’assegno, il Tribunale ha negato il diritto all’assegno divorzile. In altre parole: un reddito di € 1.000,00 mensili è sufficiente a far ritenere una persona economicamente autosufficiente, dunque non avente diritto a mantenimento. In una successiva pronuncia (5.06.2017) sempre la Sezione IX del Tribunale di Milano, facendo applicazione del principio d’indipendenza economica, ha respinto la richiesta di assegno di divorzio di un ex coniuge possesso di redditi da lavoro dipendente, nonché dell’uso esclusivo della propria abitazione, anche se non di diretta proprietà.
Anche il Tribunale di Venezia, con decreto del 25.05.2017 ha subito abbandonato il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio per determinare il diritto o meno del coniuge all’assegno divorzile “essendo piuttosto rilevanti atri indici, quali il “possesso” di redditi ed il patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e la “stabile disponibilità” di un’abitazione.”
Un simile cambiamento di prospettiva non sarà indolore per molti beneficiari di assegno divorzile e, indirettamente, per gli Uffici giudiziari italiani, già particolarmente gravati di contenzioso. Non manca, infatti, chi, tra i primi commentatori della sentenza, ha evidenziato il rischio di un eccessivo ricorso a domande di revisione dell’assegno (possibilità prevista dall’art. 9 della Legge sul divorzio e recentemente intrapresa con successo dall’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi), incrementando così il contenzioso. Per questo c’è anche chi spera che il legislatore intervenga in modo da chiarire i confini applicativi dell’istituto dell’assegno divorzile, i cui beneficiari rischiano modifiche o addirittura revoche.
D’altro canto, non è mancato chi ha notato che la prassi dei tribunali italiani fosse già da tempo allineata sui principi da ultimo affermati dalla Cassazione, se è vero che, rilevazioni statistiche alla mano, risulta che solo nel 20% circa delle separazioni viene concesso un assegno al coniuge debole. Numeri che non aumentano in sede di divorzio.
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