L’angolo della deontologia: dovere di segretezza e riservatezza

La deontologia è il complesso delle regole di condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale, la violazione delle quali comporta sanzioni giuridiche per l’avvocato. Tali sanzioni sono applicate in seguito ad un provvedimento del Consiglio Distrettuale di Disciplina, che ha sede presso ogni Corte d’Appello sul territorio nazionale. Le norme di deontologia per l’avvocato si trovano nel nuovo Codice deontologico forense, approvato il 31 gennaio 2014 dal Consiglio Nazionale Forense.

Art. 13 – Dovere di segretezza e riservatezza

L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali.

Questa disposizione è contenuta nel Titolo I del Codice deontologico, che prevede i principi generali cui deve essere improntata l’attività dell’avvocato. La riservatezza ed il segreto su ogni notizia che l’avvocato riceve dal proprio cliente sono componenti fondamentali della sua attività professionale; si potrebbe dire che ne costituiscono il fondamento, non potendo instaurarsi un rapporto di fiducia mancando questi presupposti. La segretezza copre tutta le notizie ottenute durante lo svolgimento di qualsiasi attività: sia essa di consulenza, stragiudiziale, o processuale.

Si tratta di una norma che tutela sia la parte assistita che il difensore. La prima potrà confidare ogni suo problema all’avvocato senza temere che un giorno questo diventi di dominio pubblico. Il professionista è allo stesso tempo garantito nella sua libertà ed indipendenza, non potendo assistere al meglio una persona senza poter opporre, in determinati casi il segreto professionale. Ecco che, allora, il Codice penale punisce all’art. 622 la rivelazione di segreto professionale e al tempo stesso il Codice di procedura penale prevede, agli artt. 200, 256 e 362 la possibilità per il difensore di eccepire il segreto professionale rispettivamente in sede di testimonianza, di richiesta di esibizione di documenti o consegna di atti e di assunzione d’informazioni da parte del p.m. Anche il Codice di procedura civile, all’art. 249 consente all’avvocato di astenersi dal testimoniare su fatti coperti dal segreto professionale.

L’art. 13 deve essere letto assieme all’art. 28, rubricato Riserbo e segreto professionale. Questa disposizione prevede che l’obbligo del segreto sussista anche quando il mandato è terminato o rinunciato, e che l’avvocato si debba adoperare per far mantenere il segreto anche dai collaboratori di studio e dai praticanti. Solo in alcuni casi è consentito derogare a tale obbligo, e sempre nella misura strettamente necessaria: per lo svolgimento dell’attività di difesa; per impedire un reato di particolare gravità; per allegare fatti in controversie tra avocato e cliente o parte assistita; nell’ambito di una procedura disciplinare. Mentre l’art. 13 stabilisce il principio generale, è l’art. 28 a prevedere le sanzioni per la violazione del dovere di segretezza e riservatezza: la censura e, nel caso di violazione del segreto professionale, la sospensione da uno a tre anni.

Al di là delle norme che tutelano il segreto, come deve comportarsi il difensore per meglio tutelare segretezza e riservatezza del cliente e della parte assistita? Ce lo dicono alcune pronunce del Consiglio Nazionale Forense che, ad esempio, ha affermato che l’avvocato ha “il vincolo di tenere riservata la stessa esistenza del rapporto, con particolare riguardo alla trattazione/esternazione dell’oggetto del mandato difensivo”, non potendo farsi pubblicità mostrando chi sono i suoi clienti (cfr. C.N.F., sent. n. 130/2013). Addirittura, deve adottare alcune cautele per non mettere in vetrina i propri clienti, nel caso di uno studio fronte strada con vetri non schermati (cfr. C.N.F., sent. n. 37/2013).

Pica Alfieri & Associati si rinnova

In molti anni di attività abbiamo maturato la consapevolezza che la tutela dei nostri assistiti richieda un impegno non solo costante e attento, ma anche sensibilmente più ampio rispetto ai tradizionali confini dell’incarico professionale.

Una società sempre più complessa necessita di risposte maggiormente articolate e di ulteriori sforzi. Da questa convinzione nascono le novità del nostro studio legale.

Da questo mese, infatti, abbiamo operato un profondo restyling a partire proprio dal nostro logo – liberamente ispirato al dipinto del 1929 “Verso l’alto (Empor)” di Vassily Kandinsky, appartenente alla Collezione Peggy Guggenheim – che ormai ci accompagnava da più di dieci anni e che si presenta oggi in una veste totalmente rinnovata.

Il passo più importante, però, è sicuramente il lancio di un sito internet, unito alla presenza dello Studio sui principali social network. Nell’ambito del sito troverete una pagina news, dove sarà pubblicato, fra le altre cose, il contenuto di una newsletter con cadenza trimestrale, che sarà inviata alla clientela del nostro studio e a tutti coloro che vorranno iscriversi attraverso il sito web.

Si tratta di uno strumento che abbiamo cercato di concepire semplice e leggibile, nel quale potrete trovare alcuni articoli, più o meno brevi, riguardanti novità giuridiche locali e nazionali, riconducibili alle aree di attività dello Studio.

Naturalmente, si tratta di una newsletter informativa, che non vuol costituire un parere giuridico, né puntare a risolvere l’infinita varietà dei casi concreti che si possono presentare a ciascun individuo o impresa. Il tratto distintivo del nostro studio è proprio la ricerca costante di soluzioni personalizzate e basate sull’attenta valutazione del rapporto costi/benefici: per questo il contatto con il professionista rimane fondamentale.

La responsabilità del committente nella lavorazione tessile

Terzisti pratesi, questi sconosciuti. Almeno fino ad una sentenza del Giudice del Lavoro del Tribunale di Prato, dott.ssa Consani, dello scorso 11 marzo, che ha ritenuto applicabile anche all’organizzazione del lavoro del nostro distretto tessile una norma prevista all’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 (c.d. attuativo della Legge Biagi), così come riscritta dalla Legge n. 35/2012.

Cosa prevede la norma?

Testualmente, il secondo comma dell’art. 29 sopra citato prevede che, salvo deroghe previste dalla contrattazione collettiva “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto […]”. Si tratta di una previsione speciale e maggiormente favorevole al lavoratore rispetto alla norma generale prevista nel Codice civile per il contratto di appalto (art. 1676) che limita la responsabilità solidale “fino alla concorrenza con il debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.

Quali erano i dubbi applicativi?

Le problematiche applicative dell’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 sono tuttora legate alla riconduzione alla responsabilità solidale solo nei confronti di quanti abbiano lavorato in un determinato appalto e per i soli crediti di lavoro da questi maturati in relazione all’esecuzione di quello specifico contratto. Ecco che questo principio non crea problemi in casi in cui l’appaltatore gestisce un contratto per volta. Nel caso dei terzisti, però, che ogni giorno effettuano lavorazioni o servizi per una molteplicità di committenti, riuscire ad attribuire a ciascun committente la quota di trattamento retributivo, per cui è responsabile in solido nei confronti del lavoratore, poteva non essere così semplice.

Cosa cambia con questa sentenza?

Si tratta del primo caso in materia in città, che ha applicato il principio della responsabilità solidale stabilendo che la retribuzione oraria può essere un corretto criterio per individuare quanto dovuto al lavoratore nello svolgimento di un determinato appalto. Individuando dai prospetti quante siano le ore lavorate per ciascun committente è possibile applicare l’art. 29 del D. Lgs n. 276/2003 anche al meccanismo delle lavorazioni tessili.

Dunque tutto bene?

Sicuramente la sentenza del Tribunale di Prato apre nuovi scenari per il panorama imprenditoriale cittadino, con le imprese chiamate a scegliere con maggior attenzione i propri appaltatori per evitare di dover rispondere dei loro debiti. Soprattutto, saranno i lavoratori ad avere maggiori garanzie di ottenere quanto di loro spettanza dal punto di vista retributivo e previdenziale. Questo, naturalmente, in via di prima approssimazione. Ogni caso concreto, infatti, deve essere studiato con attenzione prima di ricorrere in giudizio, posta la possibilità di deroga alla normativa da parte dei Contratti collettivi, la facoltà del committente di eccepire il beneficio di escussione dell’appaltatore e la prescrizione biennale decorrente dalla cessazione dell’appalto.

Sul diritto alla salute: presente e futuro della responsabilità civile del medico

Quando parliamo di diritto alla salute si toccano i temi del contatto con i medici e della loro eventuale responsabilità: questioni interessanti e delicate, su cui i cittadini sono particolarmente sensibili. Affrontare la problematica della responsabilità civile dell’operatore sanitario non deve portare ad una sorta di caccia alle streghe, che non rispetterebbe l’operato dei tanti medici che lavorano correttamente e accuratamente.

Negli ultimi anni l’entrata in vigore della Legge n. 189/2012 (c.d. Balduzzi) ha sollevato un ampio dibattito sul versante sia penale che civile della responsabilità medica. Cercheremo di fare il punto su disciplina e interpretazioni attuali, tenendo presente che il 28 gennaio scorso è stato approvato in prima lettura alla Camera dei Deputati il disegno di Legge C. 1769 (c.d. Gelli – Bianco dal nome dei suoi presentatori). Il testo, attualmente in discussione nelle competenti Commissioni al Senato, contiene disposizioni che incideranno notevolmente sul quadro giuridico che qui andiamo ad analizzare.

Cosa prevede ad oggi la Legge Balduzzi?

La sua entrata in vigore nel 2012 ha suscitato un acceso dibattito, tutto incentrato sul primo comma dell’art. 3 che prevede: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.

Perché tanto clamore?

Lasciando da parte gli aspetti di diritto penale, i riflessi in campo civile derivano dalla menzione dell’art. 2043 c.c. Questa disposizione contiene la regola generale in materia di responsabilità civile – o extracontrattuale – ed accostarla alla responsabilità del medico in caso di danni provocati al paziente sembrava voler mutare orientamenti consolidati da decenni. Infatti, fino ad allora, il medico era chiamato a rispondere dei propri errori a titolo di responsabilità contrattuale.

Che significa?

In tema di responsabilità sanitaria, occorre distinguere. Innanzitutto, la giurisprudenza aveva ricondotto la responsabilità del medico libero professionista nell’alveo di quella contrattuale: il medico, infatti, stipula col paziente un contratto che può essere qualificato come d’opera professionale, ai sensi degli artt. 2230 e ss. c.c. Lo stesso valeva per la responsabilità della struttura ospedaliera, sia pubblica che privata. In questi casi, infatti, la responsabilità era ricondotta all’inadempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto di spedalità. Questo sarebbe un contratto atipico stipulato tra il paziente e la struttura sanitaria nel momento in cui il primo decide di affidarsi alle cure offerte da quest’ultima (cfr. Cass. civ., sentt. n. 6141/1978 e n. 3158/1979).

Più discussa era la posizione del medico che lavora all’interno dell’ospedale, pubblico o privato che sia, poiché il paziente non stipula un contratto direttamente con il sanitario, ma con la struttura. Anche in questo caso, però, la giurisprudenza aveva optato per la natura contrattuale della responsabilità del medico ospedaliero. In un primo momento, aveva fatto leva sulla riconosciuta natura contrattuale della responsabilità dell’ente sanitario e sul fatto che essa presenta una comune radice con quella del medico dipendente dell’ente medesimo (cfr. Cass. civ., sentt. n. 2144/1988, n. 4152/1995 e n. 12233/1998). Successivamente, con la sent. n. 589/1999 della Cassazione, era stata introdotta la teoria del c.d. contatto sociale, che si verrebbe ad instaurare tra medico ospedaliero e paziente al momento dell’erogazione della prestazione.

Ad una responsabilità contrattuale del medico così ricostruita, erano indubbiamente applicabili l’art. 1176, secondo comma, e l’art. 2236 c.c., che esime il sanitario dalla responsabilità per colpa lieve nei casi d’imperizia.

Sembra tutto molto tecnico, come si traduce sui pazienti (e sui medici)?

Ricondurre una condotta nell’ambito della responsabilità contrattuale o extracontrattuale produce effetti notevoli. Semplificando al massimo, la responsabilità contrattuale fa sì che il danneggiato abbia un onere della prova più favorevole e tempi di prescrizione più lunghi (10 anni contro 5). Un paziente danneggiato, se si applica il regime della responsabilità contrattuale, deve fornire al giudice la prova del rapporto di cura instaurato con la struttura ospedaliera e/o con il medico e il danno alla sua salute (che può consistere anche in un peggioramento delle condizioni della stessa), limitandosi solo ad allegare l’inadempimento circa il trattamento sanitario ricevuto. Inoltre, il malato deve provare il nesso di causalità tra intervento e danno, salvo i casi di operazioni di routine o di omissioni e inesattezze nella tenuta della cartella clinica, in cui il nesso si presume. Sarà a questo punto il medico a dover dimostrare di aver tenuto una condotta corretta e diligente.

Torniamo alla Legge Balduzzi.

Il quadro fin qui esposto, più favorevole ai pazienti, sarebbe cambiato totalmente se, facendo riferimento al dettato dell’art. 3, la responsabilità del sanitario fosse stata ricondotta in ambito extracontrattuale (art. 2043 c.c.). Già detto dei tempi di prescrizione più brevi (5 anni), il paziente avrebbe dovuto provare non solo il danno e il nesso di causa tra condotta del medico e danno stesso, ma anche che il medico ha tenuto una condotta dolosa o colposa, ed avrebbe perso la causa se non ci fosse riuscito.

Come è stato interpretato l’art. 3 in questi anni?

La giurisprudenza è andata in ordine sparso e ha trovato argomenti sia a favore del mantenimento del vecchio orientamento sulla responsabilità contrattuale, sia per mutare indirizzo e scegliere la responsabilità extracontrattuale.

Un primo filone interpretativo, muovendo dal dettato normativo, che parla solo di “obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile” e non dell’intera disciplina della responsabilità extracontrattuale, ritiene che il legislatore non abbia voluto mutare il titolo di responsabilità, finendo così per ignorare la nuova disposizione (cfr. Trib. Arezzo, sent. 14.02.2013; Trib. Cremona, sent. 19.09.2013; Trib. Rovereto, sent. 29.12.2013; Trib. Milano, Sez. V, sent. n. 13574/2013).

Un secondo orientamento, basandosi anche sulle finalità di riduzione del fenomeno della medicina difensiva che erano alla base della Legge n. 189/2012, ha optato per la qualificazione della responsabilità del sanitario come extracontrattuale. Il regime probatorio più gravoso per il paziente sarebbe, così, giustificato dalla volontà di ridurre le possibilità di successo delle azioni risarcitorie intraprese (cfr. Trib. Torino, sent. 26.02.2013 e Trib. Varese, sent. 26.11.2012).

Ad ogni modo, anche a voler seguire quest’ultimo orientamento, resterebbe contrattuale la responsabilità del medico libero professionista e quella della struttura sanitaria, sussistendo in entrambi i casi un vero e proprio contratto con il paziente. Ciò nonostante una sentenza abbia proposto un’interpretazione estensiva della norma di legge, ritenendo anche la responsabilità dell’ospedale come extracontrattuale (cfr. Trib. Torino, sent. 26.02.2013).

Quindi finisce per dipendere tutto da dove si svolge la causa?

Certamente no. A parte una certa resistenza del Tribunale di Milano (cfr. Sez. I, sent. 31.01.2015), ormai la questione sembrerebbe definita. Ed il risultato è che a tre anni dall’entrata in vigore della Legge Balduzzi si è affermato di nuovo l’indirizzo pre-esistente. La Corte di Cassazione, infatti, ha preso posizione dapprima nel 2013 (sent. n. 4030/2013) e poi in maniera più precisa con l’ordinanza della Sez. VI, n. 8940/2014. La Suprema Corte ha affermato che con la nuova Legge “il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni”.

Tanto rumore per nulla?

Solo in parte. Non bisogna dimenticare, infatti, che in quelle poche righe l’art. 3 della Legge Balduzzi stabilisce che, nel caso del medico che si attiene alle linee guida e alle best practices, il giudice ne dovrà tenere di conto al fine di determinare l’ammontare del risarcimento. Insomma, dal punto di vista civilistico, un medico è sempre responsabile se cagiona un danno (doloso o colposo) al suo paziente ma, se si è attenuto alle corrette pratiche d’intervento, sarà chiamato a risarcire somme inferiori. Inoltre, le posizioni contrastanti emerse nel dibattito di questi tre anni hanno finito per convincere il legislatore della necessità di un intervento più chiaro e organico; intervento che, si spera, arriverà con la Legge Gelli – Bianco, che il Governo vorrebbe approvare in via definitiva entro fine anno.

Cosa ci attende in futuro?

Limitandoci agli aspetti di diritto civile, il disegno di Legge Gelli – Bianco contiene molti aspetti chiarificatori e innovativi. Innanzitutto, si prevede (art. 5) che le linee guida, cui fa riferimento anche l’art. 3 della Legge Balduzzi, siano indicate “dalle società scientifiche e dagli istituti di ricerca individuati con decreto del Ministro della salute e iscritti in apposito elenco istituito con il medesimo decreto, da emanare entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge. Le linee guida sono pubblicate contestualmente, per i singoli settori di specializzazione” entro due anni dalla data di entrata in vigore della Legge e aggiornate periodicamente. Ecco che a generiche best practices si sostituiscono pratiche cliniche e raccomandazioni elaborate da istituti accreditati, ma soprattutto pubblicate in un unico elenco.

L’aspetto forse più interessante è la scelta, operata dal disegno di Legge (art. 7), per una distinzione netta della responsabilità della struttura ospedaliera – pubblica o privata – da quella del medico che esercita la professione al suo interno. Quest’ultimo infatti è previsto che risponda a titolo di responsabilità extracontrattuale indipendentemente dal fatto che sia scelto dal paziente, che sia dipendente o meno della struttura o che svolga attività intra moenia. Si ha un completo ribaltamento delle posizioni assunte finora in giurisprudenza, con un onere della prova più gravoso per il paziente. La struttura sanitaria, invece, risponde a titolo di responsabilità contrattuale per le condotte dolose o colpose dei medici di cui si avvale “anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa”.

Viene inoltre previsto un tentativo obbligatorio di conciliazione, obblighi di assicurazione per strutture sanitarie e medici, nonché l’istituzione di un fondo di garanzia per i soggetti danneggiati da responsabilità sanitaria. Da sottolineare è la possibilità (art. 11) di azione diretta del danneggiato nei confronti delle compagnie di assicurazione della struttura e del medico, le quali, a loro volta, hanno “diritto di rivalsa verso l’assicurato nella misura in cui avrebbe[ro] avuto contrattualmente diritto di rifiutare o di ridurre la propria prestazione”. Altrettanto importanti le previsioni di limiti all’azione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti del medico: questa può essere esercitata solo nei casi di dolo o colpa grave e non può superare il triplo della retribuzione lorda annua. A fronte di un quadro che sembrerebbe di maggiori garanzie per i medici – soprattutto a fronte di un contenzioso talvolta esasperato – emerge comunque un’importante sanzione nel caso di operatori nel servizio pubblico i quali, in caso di azione vittoriosa di rivalsa da parte della struttura, per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della sentenza non possono essere preposti ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti né possono partecipare a pubblici concorsi per accedervi.

Vedremo con quali modifiche e tempistiche questo disegno di Legge sarà approvato in via definitiva. Certamente torneremo sulla questione, dato che il dibattito giuridico su queste novità è solo all’inizio.

 

Il c.d. Decreto Banche (D.L. n. 59/2016)

Lo scorso 3 maggio è stato emanato un Decreto Legge che contiene numerose modifiche alle procedure di esecuzione forzata e concorsuali, avendo introdotto anche alcuni nuovi istituti in materia di garanzia del credito. Si è parlato di “Decreto banche” perché le modifiche che hanno un impatto maggiore per il cittadino riguardano proprio il settore bancario, prevedendo anche alcune misure per i risparmiatori che hanno perduto il capitale investito in obbligazioni subordinate di alcuni istituti di credito.

Come già avvenuto per le modifiche che hanno interessato il processo esecutivo negli anni scorsi, l’ottica in cui si è mosso il legislatore è strettamente economica, tanto che il testo di conversione del Decreto Legge – approvato in prima lettura al Senato con voto di fiducia il 9 giugno scorso – è stato in discussione in Commissione Finanze (e non presso quella Giustizia). Il fatto è che le esecuzioni, in particolare quelle immobiliari, hanno una durata eccessiva. Basti pensare che, secondo le stime di Mediobanca Securities, in Italia le procedure hanno una durata media di più di sette anni, mentre in Austria, Germania e Polonia si chiude tutto in uno-due anni. Al tempo stesso le procedure esecutive valgono nel complesso un paio di miliardi di Euro. Si tratta di liquidità dovuta soprattutto al ceto bancario, che da una maggior speditezza dei processi potrebbe trarre risorse da immettere – almeno questo è l’auspicio – nel mercato del credito.

Cerchiamo brevemente di capire, quali novità contiene questo Decreto Legge, detto anche “Decreto di San Filippo” (dal santo del giorno di emanazione), così come modificato dal Senato in vista della sua conversione in Legge, concentrandoci per ora sulle norme più strettamente collegate al diritto bancario, tralasciando le modifiche al processo di esecuzione, che peraltro sono molto tecniche.

Il pegno non possessorio.

L’art. 1 del Decreto di San Filippo ha introdotto una nuova garanzia che può essere concessa dagli imprenditori iscritti nel registro delle imprese. Si tratta di un particolare tipo di pegno, che viene concesso mediante atto scritto e pubblicato in un apposito registro informatico tenuto dall’Agenzia delle entrate. Con questa pubblicità il pegno prende grado e diviene opponibile ai terzi e alle procedure concorsuali.

La finalità di questo nuovo istituto, che affonda le sue radici nel mondo giuridico statunitense, è quella di ampliare le garanzie che le imprese possono fornire agli istituti di credito senza sottrarre i beni dati in garanzia al ciclo produttivo.

Questo si capisce dal fatto che il pegno non possessorio può essere utilizzato solo per garantire i crediti concessi all’imprenditore inerenti alla sua attività d’impresa, siano essi crediti presenti o futuri, determinati o determinabili. Al tempo stesso i beni dati in pegno possono essere solo beni mobili non registrati destinati all’attività d’impresa, anch’essi esistenti o futuri, determinati o determinabili anche con riferimento ad una o più categorie merceologiche. Il Senato ha introdotto la possibilità di garantire anche crediti concessi ad un terzo e di vincolare anche beni immateriali come brevetti o crediti. Venendo meno la caratteristica fondamentale del pegno tradizionale, ossia lo spossessamento da parte del creditore, i beni oggetto di garanzia potranno continuare ad essere utilizzati dall’imprenditore nella sua attività.

Salvo espressa eccezione, l’imprenditore potrà anche trasformare o alienare i beni dati a pegno, perché in questo caso la garanzia si trasferisce sul risultato della trasformazione o sul corrispettivo per l’alienazione.

In caso d’inadempimento del debitore, il creditore (soprattutto le banche, come abbiamo accennato), potrà procedere alla vendita dei beni oggetto di pegno, a escutere i crediti oggetto di pegno fino a concorrenza della somma garantita, a locare i beni o addirittura ad appropriarsene, sempre fino a concorrenza della somma garantita. Il tutto previo avviso scritto al debitore e nel rispetto di particolari modalità esecutive previste dalla legge e dal contratto con cui il pegno medesimo è costituito.

Insomma, gli imprenditori avranno la possibilità di fornire maggiori garanzie per ottenere credito senza perdere il possesso dei beni inerenti l’impresa, mentre i creditori potranno contare su un nuovo istituto che dovrebbe velocizzare il recupero in caso di insolvenza.

Il patto marciano.

Tecnicamente l’art. 2 del Decreto banche parla di “Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato”, ma in altre parole il Governo ha introdotto all’interno del D. Lgs. n. 385/1993 (Testo unico bancario) un art. 48-bis che prevede proprio il patto marciano. Finora sconosciuto alla legislazione positiva e probabilmente risalente ad un’alterazione giustinianea di un testo del giurista Marciano (II-III Secolo d.C.), questo accordo permetteva al creditore insoddisfatto di appropriarsi della cosa ricevuta in garanzia, purché fosse stimata nel giusto prezzo.

In poche parole è quanto prevede anche il nuovo art. 48-bis del T.u.b., rendendo possibile che un contratto di finanziamento concesso da una banca ad un imprenditore sia garantito dal trasferimento della proprietà di un bene immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprenditore a favore della banca o di una società di gestione ad essa collegata. Tale trasferimento non avviene subito, ma è sospensivamente condizionato all’inadempimento dell’imprenditore-debitore.

In sostanza, se il debitore non paga per un periodo di tempo diverso a seconda del tipo di finanziamento (periodo di tempo che è stato allungato in prima lettura dal Senato e che, ad esempio, per chi ha già rimborsato l’85% del finanziamento ricevuto prevede un termine di dodici mesi dopo il mancato pagamento di tre rate, anche non consecutive), la banca può notificargli l’intenzione di avvalersi del patto. A questo punto – semplificando il più possibile anche a costo di essere giuridicamente imprecisi – il creditore chiederà al Presidente del Tribunale la nomina di un perito per la stima dell’immobile. Se il valore del bene immobile è superiore a quello del credito, la banca dovrà restituire al debitore l’eccedenza in denaro. Al momento della comunicazione della stima, o del versamento all’imprenditore della differenza nel caso in cui l’immobile valga più del credito, si avvera la condizione sospensiva e dunque la proprietà dell’immobile passa alla banca.

Questa norma si applica anche ai finanziamenti già concessi ed in fase di rinegoziazione e anche nel caso in cui l’immobile oggetto di patto marciano sia stato sottoposto ad esecuzione immobiliare. In sostanza, si tratta di una possibilità per acquisire rapidamente beni immobili da parte delle banche, ma soprattutto da parte di società di gestione immobiliare da loro istituite ad hoc, così da poterne accelerare la liquidazione rispetto alle lunghe procedure esecutive. La garanzia per il debitore risiede nella perizia di stima effettuata da un esperto nominato dal Tribunale, dunque imparziale, e dal fatto che non possono essere oggetto di patto marciano gli immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il terzo grado.

Secondo il Ministro dell’Economia (ancora una volta a riprova della prospettiva cui si pone il legislatore quando mette mano a queste norme), l’introduzione di questo patto consentirà ai creditori di entrare in possesso dell’immobile in sette-otto mesi contro i quaranta mesi di media nazionale per le procedure di esecuzione immobiliare.

La convalida di sfratto per il rent to buy.

Interessante l’introduzione, operata con l’approvazione al Senato del testo di conversione del D.L. n. 59/2016, della possibilità per il proprietario di immobili di utilizzare il procedimento per convalida di sfratto anche nel caso in cui la locazione preveda il rent to buy. Questo particolare tipo di contratto, introdotto con il c.d. Decreto Sblocca Italia (D.L. n. 133/2014), prevede la possibilità di locare un bene immobile a un conduttore che ha anche diritto ad acquistarne la proprietà, imputando in conto prezzo i canoni pagati. La previsione della convalida di sfratto, introdotta nella fase di conversione del Decreto banche, mette fine al dibattito precedente, nato poiché, essendo il rent to buy un contratto atipico, era difficile ipotizzare un rimedio efficace e celere in caso di inadempimento del conduttore.

Le misure per i risparmiatori di Banca Etruria, CariChieti, Banca Marche e CariFerrara.

Il D.L. n. 59/2016 è soprannominato Decreto banche perché contiene anche un intervento per i risparmiatori in strumenti finanziari subordinati che hanno visto sfumare tutti i loro risparmi in seguito all’attivazione della procedura di risoluzione delle quattro banche in liquidazione lo scorso 22 novembre.

In sostanza, in via alternativa rispetto ad azioni innanzi ad un arbitro, si potrà seguire una procedura diretta con richiesta di rimborso al Fondo di Solidarietà istituito con la Legge di Stabilità 2016. Sono previsti numerosi paletti, per accedere a questa procedura.

Innanzitutto la tempistica: si potranno richiedere i rimborsi a partire da 60 giorni dopo la conversione in Legge del Decreto (dunque ad inizio luglio) ed entro sei mesi da tale data. Potranno fare richiesta i risparmiatori che avevano acquistato strumenti subordinati prima della data del 12 giugno 2014 (entrata in vigore della direttiva europea sul bail in) e che li possedevano alla data della messa in risoluzione della banca.

In secondo luogo deve sussistere una delle seguenti condizioni, autocertificate da chi propone la domanda: il risparmiatore deve avere un patrimonio mobiliare di valore inferiore a 100.000 € secondo i parametri Isee, oppure avere un reddito complessivo Irpef per il 2014 inferiore a 35.000 €.

Infine, il rimborso, essendo automatico, non sarà totale. L’investitore, infatti, potrà ottenere l’80% del corrispettivo pagato. Al netto, però, di oneri e spese sostenute, nonché della differenza, se positiva, tra il rendimento degli strumenti finanziari subordinati e il rendimento di mercato di un B.T.P. in corso di emissione di durata finanziaria equivalente oppure il rendimento ricavato tramite interpolazione lineare di B.T.P. in corso di emissione aventi durata finanziaria più vicina.

Questa procedura è alternativa e non cumulabile con quella arbitrale prevista di fronte all’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC), che però ancora non è a regime, mancando alcuni decreti attuativi. La procedura arbitrale potrà portare ad ottenere rimborsi fino al 100% del capitale investito, purché vi siano i presupposti, in particolare la violazione degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza da parte della banca.

E per Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca?

Si tratta di casi diversi, che il Decreto banche non prende in considerazione. In questo caso, per la tutela dei propri diritti, i soci-risparmiatori non potranno che valutare azioni individuali, giudiziarie o arbitrali che siano. Ci limitiamo a segnalare che accanto ad una responsabilità degli amministratori è possibile che si configuri una responsabilità dell’istituto di credito. Naturalmente, è necessario che vi siano i presupposti per poter intraprendere simili azioni, che variano in base a ciò che è accaduto a ciascun risparmiatore.

Concordato preventivo: una nuova procedura competitiva

La penultima riforma che ha interessato il diritto fallimentare, ossia il D.L. n. 83/2015, convertito con la L. n. 132/2015, ha introdotto un nuovo art. 163-bis alla Legge Fallimentare. Tale disposizione prevede una novità nell’ambito delle procedure di concordato preventivo, applicabile per quelle introdotte a partire dal 27 giugno 2015.

In sostanza, in presenza di un concordato preventivo in cui il debitore ha indicato un soggetto che ha formulato un’offerta di acquisto per i beni aziendali, è possibile dare vita ad una procedura competitiva, al fine di cedere l’azienda al migliore offerente. Ciò può avvenire anche nei casi, tutti previsti dal nuovo art. 163-bis L. Fall., in cui il trasferimento dell’azienda non sia immediato, nei casi di atti urgenti di straordinaria amministrazione da autorizzare e in caso di affitto di azienda o di ramo di azienda.

Lo scopo è quello di evitare che procedure di concordato in cui è previsto il trasferimento dell’azienda nascondano forme elusive dell’interesse dei creditori. Simili concordati – da qualcuno definiti “chiusi” – potrebbero, infatti, portare alla cessione di complessi aziendali a soggetti che sono emanazione della stessa società in concordato e che non necessariamente potrebbero fornire condizioni di acquisto ideali. L’avvio di una procedura competitiva – del tutto simile ad un’asta – garantisce così al concordato la cessione al migliore offerente.

In concreto come funziona?

La norma prevede che il Tribunale, accertata una delle condizioni sopra descritte, emani un decreto di apertura della procedura competitiva, con la finalità di ricercare interessati all’acquisto dell’azienda. Questi potranno, nei termini e secondo le modalità stabilite in decreto, far pervenire le proprie offerte, che rimangono segrete fino all’udienza fissata per il loro esame e che devono essere migliorative rispetto a quella presentata nel piano di concordato.

Per fare ciò, e dunque per poter valutare in maniera congrua l’azienda che si propongono di acquistare, gli interessati possono ottenere dal Commissario giudiziale tutte le informazioni opportune, come ad esempio le scritture contabili del debitore, previa assunzione di un obbligo di riservatezza.

All’udienza fissata, laddove vi siano più offerte migliorative, il giudice può disporre una gara tra gli offerenti, con i rilanci previsti dal decreto di apertura della procedura competitiva. Se chi acquista è soggetto diverso da chi aveva fatto la proposta contenuta nel piano di concordato, quest’ultimo è liberato da ogni sua obbligazione e otterrà il rimborso delle spese sostenute.